Nonostante: Microgrammi
Notte e nebbia
Jean Cayrol
Libro: Copertina morbida
editore: Nonostante
anno edizione: 2014
pagine: 188
Notte e nebbia, dal tedesco Nacht und Nebel. Così erano classificati i prigionieri politici all'interno dei campi di concentramento nazisti. Portavano scritte sulla schiena, come un destino, due grandi "N". La loro morte, ci ricorda infatti Boris Pahor nella postfazione, "sarebbe stata un viaggio notturno nella nebbia, finito in fumo nei camini del forno crematorio". Erano "i più disgraziati tra i disgraziati", condannati a un'eliminazione segreta. Jean Cayrol, scrive ancora Pahor, "fu uno di questi disgraziati che riuscì a salvarsi". Nel 1946, reduce dall'esperienza concentrazionaria, compone la raccolta di poesie Poèmes de la nuit et du brouillard, che trova poi nel 1955 il suo prolungamento in forma narrativa nel testo che Cayrol scrive per il film di Alain Resnais Nuit et brouillard, non un semplice "esempio sul quale meditare", ma, come suggerisce lo stesso Cayrol, "un 'dispositivo d'allerta' contro tutte le notti e tutte le nebbie". Un appello rivolto a noi tutti che "facciamo finta di credere che tutto questo appartenga a una sola epoca e a un solo paese, e non pensiamo a guardarci intorno e non sentiamo il grido senza fine".
Sarajevo
Blaise Cendrars
Libro: Libro in brossura
editore: Nonostante
anno edizione: 2019
pagine: 124
Sarajevo è un radiodramma scritto da Blaise Cendrars per la radiotelevisione francese. Il racconto ruota attorno all’attentato del 28 giugno 1914, in cui persero la vita l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie. L’evento viene messo in scena, in un gioco di flash-back e dissolvenze narrative, da alcuni improbabili avventori di una vineria nella Sarajevo degli anni ’50, dov’è in corso un improvvisato processo alla Storia. Come in un girotondo folle e insensato, Cendrars avvicenda sul palcoscenico una pletora di figure secondarie – di comparse –, il cui carattere quasi caricaturale, di inetti in costante balìa delle giravolte del caso (o è il destino?), rende palese la (comica) sproporzione tra essi e ciò che nei quarant’anni intercorsi tra l’attentato e il «processo» è accaduto (a tacer d’altro, le due guerre mondiali). Sarajevo è dunque un dramma che vira al grottesco. Come se la Storia non fosse altro che una farsa priva di spazi di redenzione, o di catarsi.
Muga-muchu
Philippe Forest
Libro: Libro in brossura
editore: Nonostante
anno edizione: 2018
pagine: 159
Muga-muchu significa "senza coscienza", ovvero "privi di sé, in balia del vuoto, persi nell'estasi di un annientamento in cui svanisce ogni certezza di essere ancora qualcuno". È questa - prosegue Forest - "l’espressione che usarono quasi tutti i superstiti per indicare lo stato di prostrazione e la totale perdita di riferimenti cui li aveva ridotti la catastrofe nucleare". Sotto questo titolo sono qui raccolti i due testi che Forest ha dedicato alle due bombe atomiche sganciate durante il secondo conflitto mondiale sul Giappone. Il primo - il radiodramma 43 secondi (ovvero il tempo che impiegò l’ordigno nucleare a raggiungere il suolo) - restituisce al lettore gli attimi che precedettero l’esplosione della bomba su Hiroshima. Ad alternarsi, quasi in un dialogo immaginario, sono le voci del pilota americano al comando del terzo aereo del convoglio e quella di una giovane e ignara donna giapponese che abita nei dintorni della città che a breve verrà colpita. Il secondo invece - Storia del fotografo Yōsuke Yamahata - narra l’esperienza dell’uomo che, con la sua Leica di ordinanza, fu il primo a fornire testimonianza fotografica delle vittime e della distruzione a Nagasaki.
Ho ucciso-Ho sanguinato
Blaise Cendrars
Libro: Libro in brossura
editore: Nonostante
anno edizione: 2015
pagine: 104
Sembrano due racconti distanti, "Ho ucciso" e "Ho sanguinato". Il primo, scritto nel 1918 a guerra ancora "fresca", è una "rapida istantanea" che restituisce gli umori, gli odori di un campo di battaglia, la "puzza di sangue, fenolo, merda, putrefazione", come scrive Paolo Rumiz nella nota introduttiva. Il secondo, pubblicato nel 1938, è invece un percorso di rinascita, il racconto della vita caotica di un ospedale militare, un "girotondo infernale" che giustappone crudezza (o crudeltà), carità, abiezione, resurrezione, e una lingua - a tratti - dal sapore e dagli echi quasi proustiani. Eppure sono testi complementari. Una sorta di dittico ideale, una mise en scène della guerra in due atti. Istinto e pietà. L'istinto è quello di sopravvivenza, che qui assume i contorni di un destino ineluttabile, un atto di resistenza da affrontare di petto, senza sotterfugi. La pietà, quella che si offre - letteralmente - al primo venuto, è mondata invece di ogni possibile retrogusto paternalista, senza fronzoli o infingimenti. Cendrars non cede alla tentazione del belletto o del salvacondotto cinico. Gli bastano due verbi per raccontare la tragica fatalità di una vita umana. Ho ucciso. Ho sanguinato.
Piccolo elogio della non appartenenza. Una storia istriana
Michele Zacchigna
Libro: Copertina morbida
editore: Nonostante
anno edizione: 2013
pagine: 68
Questo libro è il racconto di una storia istriana. La prospettiva individuale di un cucciolo dell'esodo. Di chi si è visto consegnare dalla storia il "peso quasi ingombrante" di una memoria e di un'appartenenza che affidavano al rimpianto e al rancore il lessico della loro sopravvivenza. Le pagine di questo piccolo memoir tracciano, come scrive Paolo Cammarosano nella postfazione, "il percorso per una liberazione dell'individuo che sfugga a tentazioni identitarie e ad appartenenze che risalgano ad esperienze altrui e non alle proprie". Un percorso di emancipazione, un processo di sottrazioni successive che comporta un peso diverso - non meno gravoso - fatto di spezzature, abbandoni e divorzi. Fino a giungere ad un resto non più ulteriormente decostruibile. Un'appartenenza minima, non solo necessaria ma anche doverosa: "la sola appartenenza plausibile, fugace come la durata dei corpi". L'identità di struttura che Zacchigna ritrova nei tratti e nelle fattezze del cadavere della madre. È intorno al lutto per un corpo morto, più che per una terra perduta, che il senso di appartenenza trova la sua dimensione propria.