Fondazione Ente dello Spettacolo: Le torri
Vincente Minnelli. La materialità del sogno
Daniela Turco
Libro: Libro in brossura
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2021
pagine: 240
Vincente Minnelli (Chicago, 1903-Los Angeles, 1986) si è affermato come uno tra i registi più importanti di Hollywood lavorando oltre trent’anni per la MGM con trentaquattro film realizzati, che hanno lasciato un’impronta originale e unica nella storia del cinema. Figlio d’arte, Minnelli ha praticato il teatro fin da bambino. Dopo un esordio a Broadway come scenografo e direttore di scena, nel 1940 approda a Hollywood; ha così inizio uno dei percorsi più affascinanti nel cinema americano, segnato da una libertà e da una attitudine alla sperimentazione, sempre rinnovata. Minnelli ha saputo coniugare il senso per lo spettacolo del cinema americano con lo spessore della cultura europea; questa intuizione che ha guidato sempre il suo cinema, classico e popolare insieme, gli ha conferito una profonda coerenza di sguardo e di stile, collocandolo ai vertici più elevati di Hollywood. Tra i suoi film spiccano musical come Incontriamoci a Saint Louis (1944), Un americano a Parigi (1951), Gigi (1958); commedie come Il padre della sposa (1950), La donna del destino (1957); melodrammi come Qualcuno verrà (1958), I quattro cavalieri dell’Apocalisse (1962); film che indicano come Minnelli abbia sperimentato tutti i generi, rimodulandoli secondo la sua cifra personale. È stato uno tra i maggiori coloristi di Hollywood: senza la lente pittorica della sua opera, senza il suo uso narrativo del colore, alcuni film di Jean-Luc Godard o di Martin Scorsese, non potrebbero essere pienamente compresi. Si tratta allora di riconoscere a Minnelli la posizione che gli spetta, quella di un regista dotato di immenso talento che ha saputo tracciare nei suoi film il disegno del tempo, il colore dei segni, la magia dei sogni.
Federico Fellini. L'apparizione e l'ombra
Bruno Roberti
Libro: Libro in brossura
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2020
pagine: 224
Federico Fellini (1920-1993) è forse il cineasta italiano su cui si è scritto di più. Fiumi di pagine critiche, biografie, riflessioni sui suoi film. E probabilmente Fellini è il cineasta italiano che più si è “autoraccontato”, spesso con una immaginazione a briglia sciolta. I suoi disegni preparatori ai film e i quaderni in cui trascriveva e disegnava i suoi sogni fanno da controcanto ai racconti disseminati in migliaia di interviste e raccolti nel libro Fare un film. Una esuberanza immaginativa che si è rispecchiata nelle sue opere, tra una memoria autobiografica reinventata e una libera forma autoriflessiva, in cui il pubblico è interpellato, coinvolto insieme all’autore e ai suoi sogni (basti pensare a Intervista). Le suggestioni epocali e profetiche di molti suoi film hanno scandagliato un inconscio collettivo, non solo italiano. Le “luci della ribalta” lo hanno fin troppo illuminato, reso un “aggettivo vivente” (felliniano), avvolto, e forse irretito, dalla sua fama. Fatalmente ciò che del suo mondo è rimasto in primo piano sono forme e temi persistenti: l’universo femminile, il circo, l’infanzia, la visionarietà onirica, il fascino per il soprannaturale. Sembrerebbe non ci sia più niente di nuovo da dire su di lui. Eppure, in profondità di campo, si possono ancora intuire molte “zone d’ombra” che nelle immagini felliniane si accompagnano a improvvisi sprazzi di luce. Spesso nella sua espressività qualcosa si rivela in penombra e si illumina come forma-apparizione, ruotante in ciò che, a proposito di Fellini, Gilles Deleuze definisce immagine-cristallo. Questo libro prova a insinuarsi in queste pieghe, proprie della sua figurazione barocca, percorrendone le sinuosità labirintiche.
Michelangelo Antonioni. L’alienista scettico
Simona Busni
Libro: Libro in brossura
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2020
pagine: 236
Fin dalla sua affermazione nell’olimpo dei grandi autori del Novecento, sulla figura di Michelangelo Antonioni (1912 - 2007) pesa tutta una serie di clamorose etichette: è stato definito, tra le altre cose, il cineasta della borghesia, del neorealismo interiore, della malattia dei sentimenti, dell’incomunicabilità, dell’alienazione; il suo nome è stato inoltre associato alle categorie teoriche più disparate, spaziando dalla storia dell’arte alla letteratura, fino a lambire i territori della filosofia. E proprio dalla prospettiva filosofica intendiamo rileggere la modernità della sua opera, giocando con le parole e immaginando di dover fare il ritratto a uno spietato “alienista scettico”, ossia uno specialista del dubbio, un esperto osservatore di tutto ciò che è Altro, impegnato in estenuanti (e, pur sempre, inconcludenti) pratiche di identificazione, riferite sia alla realtà sia all’immagine stessa. Nonostante la questione dello sguardo risulti centrale nel suo cinema, paradossalmente, la condizione del regista di Blow-up (1966) è più simile a quella di un cieco, ossessionato dal voler comprendere – attraverso le soglie sinestetiche di una nuova percezione poetica – qualcosa che è già davanti ai suoi occhi.
Giovanni Pastrone. I sogni della ragione
Silvio Alovisio
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2015
pagine: 224
Giovanni Pastrone (1882-1959) è stato uno dei principali protagonisti della storia del cinema muto. La sua personalità professionale e artistica, così prismatica e controversa, a seconda dei casi mitizzata o sminuita, banalizzata o strumentalizzata, resta ancora oggi di non semplice interpretazione. Artefice di Cabiria, il più influente film del primo cinema italiano, nella sua carriera di produttore ha sperimentato formule innovative come la serie comica, con André Deed (il celebre Cretinetti); il kolossal storico a lungometraggio, con La caduta di Troia; il film atletico d’avventura, con Maciste; il diva film nella sua variante più aggressiva e morbosa, con Il fuoco. Profondo conoscitore della tecnica cinematografica, efficiente e severo organizzatore, amministratore avveduto ma aperto al rischio, Pastrone è stato anche, e soprattutto, tra i maggiori registi degli anni Dieci: un artista dal grande gusto estetico e compositivo, dotato, per citare D’Annunzio, di uno «straordinario istinto plastico». Nelle sue regie, spesso attente a indagare gli aspetti più inquieti della femminilità, la razionalità e la fiducia verso la scienza s’intrecciano con un’inclinazione al barbarico, al pessimismo fatalista, all’irrazionale e al macabro, all’allucinato e all’onirico, quasi a suggerire una potente alchimia tra le certezze, in realtà inquiete, del positivismo e le pulsioni infiammate dell’estetica simbolista.
Manoel De Oliveira. Il visibile dell'invisibile
Bruno Roberti
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2013
pagine: 244
Manoel de Oliveira (1908) - Tra i massimi cineasti viventi ancora in attività, la sua età è quasi quella del cinema e la sua opera ne ha attraversato scoperte, figure, mutamenti, nella costruzione di uno stile e di uno spessore filosofico che si traduce ogni volta in cristalline ed enigmatiche espressioni artistiche. Il regista lusitano è Maestro di un cinema di pensiero entro cui si dipanano i valori dell’immagine, la costruzione dello spazio filmico, l’esplorazione del tempo e del gesto, l’interrogazione del linguaggio, la densità simbolica, la misura classica della poesia, il senso universale della storia, il sentimento del mistero, l’enigma della religiosità. Nei suoi film la centralità del cinema nell’orizzonte del moderno si misura sul rapporto costante con le arti, dal teatro alla parola letteraria, dalla pittura alla musica. Il suo amore per la tradizione si accompagna a una inesausta tensione sperimentale. Ciò fin da un film-chiave della avanguardia cinematografica come Douro, lavoro fluviale (1931) e attraverso la forma singolare di realismo fantastico di Aniki-Bóbó (1942), passando per quello straordinario documento poetico di vita e verità che è Atto di primavera (1963) e per la rivelazione del sublime nella forma-melodramma della quadrilogia degli amori impossibili Il passato e il presente (1971), Benilde o la vergine madre (1975), Amor di perdizione (1978), Francisca (1981), arrivando a film estremi nella durata e nella ricchezza immaginaria come Le soulier de satin (1985), nelle sue sette ore, o come il folgorante apologo di Il mio caso (1986), interrogativo sul senso dell’arte nel mondo contemporaneo, realizzando meditazioni sui destini storici e sulle domande filosofiche dell’umanità come No, o la folle gloria del comando (1990), La Divina Commedia (1991), Parole e utopia (2000), Un film parlato (2003), Il quinto Impero (2005) e struggenti elegie sulle imperscrutabili vie di un amore che si incarna tra misticismo e desiderio, come in La valle del peccato (1993), I misteri del convento (1995), Inquietudine (1998), La lettera (1999), Il principio dell’incertezza (2002), Specchio magico (2005), Belle toujours - Bella sempre (2006), Singolarità di una ragazza bionda (2009). Fino ad oggi il suo lavoro instancabile ci ha dato opere ogni volta sorprendenti, fino a giungere, come avviene in Lo strano caso di Angelica (2010) e in O Gebo e a Sombra (2012), alla capacità di filmare l’invisibile, di spingere lo sguardo oltre lo specchio, laddove il cinema e la vita sembrano congiungersi in una visione limpida e insieme arcana.
Abbas Kiarostami. Immaginare la vita
Dario Cecchi
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2013
pagine: 180
Abbas Kiarostami (1940) è uno dei maggiori registi viventi a livello internazionale e forse in assoluto il più importante cineasta iraniano. Dopo una formazione artistica e un inizio come pubblicitario, si avvicina al cinema grazie alla collaborazione con il Kanun, l'istituzione pubblica iraniana per l.educazione dei giovani. Al suo primo lungometraggio, Il pane e il vicolo (1970), segue un.intensa produzione di corti e mediometraggi, tra i quali vanno ricordati La ricreazione (1972), Esperienza (1973) e The Traveller (1974), nonché Il coro (1982) e Concittadini (1983). La fama internazionale gli arriva con Dov'è la casa del mio amico? (1987), cui seguono Close-Up (1990), E la vita continua (1992) e Sotto gli ulivi (1994). Questi ultimi due compongono con il film del 1987 un'ideale trilogia. Vanno ricordati anche Il sapore della ciliegia (1997), ABC Africa (2001), Dieci (2002) e i più recenti Shirin (2008), Copia conforme (2010), e Qualcuno da amare (2012) senza tralasciare la sua regia cinematografica per lo spettacolo teatrale Tazieh (2003) andato in scena presso il Teatro India di Roma.
Friedrich Wilhelm Murnau. L'arte di evocare fantasmi
Andrea Minuz
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2010
pagine: 190
Friedrich Wilhelm Murnau (1888- 1931), considerato uno dei più grandi autori della storia del cinema, è stato tra i principali protagonisti dell'intensa stagione del cinema di Weimar. Nonostante una filmografia assolutamente eclettica per generi e temi affrontati, nella sua opera prende forma un discorso sulla visione e sull'organizzazione della forma tra i più incisivi dell'intera stagione del muto, che attraversa tanto il cinema europeo che i modelli del film hollywoodiano. Un'immaginazione creativa totalizzante e un controllo di tutte le componenti della messa in scena che trova nelle atmosfere gotiche di Nosferatu il vampiro (1921), negli innovativi movimenti di macchina messi a punto in L'ultimo uomo (1924), e nella composizione plastica di Faust (1926), Sunrise (1927) e Tabù (1931), alcuni degli esiti più alti della storia delle forme filmiche. Rielaborando il lavoro di figurazione sul paesaggio del cinema scandinavo degli anni Dieci alla luce della tradizione pittorica del romanticismo tedesco, fondendo la lezione del teatro di Max Reinhardt con alcuni motivi e suggestioni dell.espressionismo, Murnau elabora un progetto di formalizzazione radicale dell.inquadratura che si muove tuttavia sullo sfondo di un sensualismo della visione e di una più generale malinconia della natura in cui le sue immagini sembrano dissolversi.
Jacques Tati. Il suono delle immagini
Marco Muscolino
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2009
pagine: 144
Jacques Tati (Le Pecq, 1907 - Parigi, 1982) si è affermato in vita come attore, sceneggiatore e regista per il cinema, in particolare grazie ai suoi primi tre lungometraggi: Giorno di festa (1949), Le vacanze di Monsieur Hulot (1953) e Mon oncle (1958). Creatore e interprete del lunare personaggio di Monsieur Hulot, Tati realizza nel 1967 il suo progetto più ambizioso, Playtime. Ma, invece del successo, con questo film arriva un clamoroso fallimento commerciale, destinato ad influenzare negativamente il resto della sua carriera. Gli ultimi due tasselli di una breve filmografia sono sbrigativamente liquidati da pubblico e critica come "minori": Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971) e Il circo di Tati (1973). Tati paga infine il declino di popolarità trascorrendo gli ultimi anni della sua vita lontano dai set cinematografici. Solo a distanza di alcuni anni dalla sua scomparsa, l'eredià artistica di Tati, grazie all'impegno della figlia Sophie e di alcuni cineasti e studiosi francesi, è stata difesa avviando un percorso di valorizzazione che restituisce al cineasta la sua meritata statura di grande comico moderno.
Luis Buñuel. La logica irridente dell'inconscio
Tonino Repetto
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2008
pagine: 180
Luis Buñuel, coetaneo del XX secolo, lo ha attraversato quasi per intero. Nella sua opera cinematografica, dal folgorante esordio di Un chien andalou (1929) a Quell'oscuro oggetto del desiderio (1977), l'ultimo e definitivo capitolo della sua vicenda creativa, si coniugano la componente onirica surrealista e il realismo visionario spagnolo di Goya. I film realisti di Buñuel (come Las Hurdes, Nazarín, Viridiana) contengono sempre immagini surreali, i film surrealisti puri (L'âge d'or, L'angelo sterminatore), forti elementi di critica sociale. Il surrealismo attraversa tutto il cinema buñueliano; emerge a tratti anche nelle produzioni di genere che il regista è costretto a girare nel suo esilio messicano. Quando, nella sua ultima stagione francese, è finalmente libero dai condizionamenti produttivi, Buñuel riprende i temi surrealisti dei primi film e, modulandoli diversamente, li inserisce in quegli straordinari racconti picareschi che s'intitolano: Bella di giorno (1967), La via lattea (1969), Tristana (1970), Il fascino discreto della borghesia (1972), Il fantasma della libertà (1974).
Alfred Hitchcock. Lo sguardo del desiderio
Roberto Manassero
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2008
pagine: 171
Alfred Hitchcock (1899-1980) è forse il regista più visto, conosciuto e studiato della storia del cinema. Nella sua lunghissima carriera, con più di sessanta film realizzati, ha attraversato il periodo muto e quello sonoro, la produzione inglese degli anni ’20 e ’30 e la stagione d’oro di Hollywood, tra tycoon come Selznick e i grandi divi dello schermo, mantenendo intatto il suo senso per lo spettacolo cinematografico puro, incredibilmente in equilibrio tra le logiche della produzione industriale e le esigenze della creazione artistica. Dai capolavori inglesi, muti e non, come Il pensionante (1926) e Il club dei 39 (1935), alle grandi opere di suspense, perdizione e perversione come Notorius (1946), La finestra sul cortile (1954), Intrigo internazionale (1959) e Gli uccelli (1963), i suoi film smuovono e mettono a nudo le pulsioni più segrete della psiche umana, svelando in tutta la sua ambiguità la ragione stessa del piacere dello sguardo.
Jean Renoir. L'inquietudine del reale
Daniele Dottorini
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2007
pagine: 176
Jean Renoir (1894-1979) ha attraversato il cinema, la sua infanzia e la sua storia; ne ha vissuto i cambiamenti e le stagioni, sempre proiettando in ogni film se stesso, le sue ossessioni e le sue aspirazioni, i suoi desideri e il suo sguardo meravigliato sul mondo. Il cinema di Renoir è stato sempre capace di rinnovarsi e modificarsi, di lavorare sulle forme e sul linguaggio, di sperimentare costantemente, nella consapevolezza che le immagini del cinema scorrono come l’acqua di un fiume, senza fermarsi mai. Tutto in Renoir scorre come se ogni immagine contribuisse alla costruzione di un unico film, articolato e cangiante come la vita. È questo, forse, il segreto di quella familiarità che si respira nei suoi film, come ricordava Truffaut, e che li rende vivi ad ogni visione.
Robert Bresson. La meccanica della grazia
Alessio Scarlato
Libro
editore: Fondazione Ente dello Spettacolo
anno edizione: 2006
pagine: 176
Bresson è l'autore di un cinema intransigente, libero nelle sue forme espressive da qualsiasi condizionamento produttivo o stilistico. La sua ricerca è dedicata a sviluppare le potenzialità inedite date dalla registrazione automatica delle immagini e dei suoni, in nome di una poetica ossessivamente intenta a indagare la verità della realtà, al di fuori di ogni artificio teatrale o letterario. Il volume ha come obiettivo fondamentale la ricostruzione del pensiero visivo (e sonoro) del grande autore francese. L'analisi delle opere (e del fondamentale testo bressoniano di poetica, "Note sul cinematografo") mette al centro dell'indagine la connessione tra il problema poietico dell'articolazione linguistica del cinematografo e il problema etico della redenzione dal male.